Livorno After-Shock: cronaca degli ultimi sopravvissuti.

Mausoleo di Ciano
"Fui il primo a svegliarmi, forse per colpa del gelido freddo della notte o per i dolori che riempivano il mio corpo. Non capivo dove mi trovavo, la testa mi girava ancora e la mia vista era sfocata. Trovai un vecchio straccio tra un cumulo di rifiuti e coprii la mia ragazza, che dormiva ancora. L'alba si stava pian piano annunciando ed ebbi così l'opportunità di guardarmi attorno, scrutando le figure che mi circondavano sempre più nitide grazie ai primi raggi del sole. Alcune colonne, delle freddi pareti di pietra e cemento, molte scritte sui muri. Provai ad uscire da quella stanza e vidi il sole sorgere, il primo sole dopo la tragedia. Non sappiamo cosa sia successo, nel trambusto del giorno prima ci arrivarono solo notizie frammentate, alcuni parlarono di un rigassificatore esploso, altri di una perdita di gas letale da una ciminiera nell'entroterra, altri ancora di un disastro nucleare nella vicina base americana. Fatto sta che la vista che mi si parava davanti era agghiacciante. Una città completamente ferma, senza una luce, un rumore, o il minimo segno di civiltà. Mi guardai attorno e capii subito dove eravamo. Ci eravamo rifugiati nel mausoleo di Ciano,
Mausoleo di Ciano
forse con la speranza che quel freddo cubo di pietra potesse darci riparo e così era stato. Mentre guardavo esterrefatto quello scenario che fino al giorno prima avevo visto solo nei film, si svegliò Francesca che senza pronunciare una parola si avvicinò e mi abbracciò forte, porgendomi poi il nostro bambino ancora addormentato. Adesso dovevamo decidere cosa fare. La prima idea che ci venne in mente era trovare qualche altro sopravvissuto, cominciammo così a costeggiare la collina fino ad arrivare ad una grande villa distrutta. Forse lì, nel verde, qualcuno aveva provato a cercare riparo. Ma il silenzio che circondava quel monumento un tempo sicuramente florido ci fece intuire che eravamo soli anche lì. Provai a riconoscere il luogo, trasformato com'era dalla tragedia del giorno prima, e solo grazie ad un arco ormai quasi distrutto riconobbi Villa Dupouy. Probabilmente dei rifugiati avevano appena lasciato il posto, vista la massiccia presenza di rifiuti e scritte sui muri. Alcune di esse erano chiare richieste di aiuto. I resti di un fuoco erano indizi più che sufficienti per farci capire che qualcuno era stato lì
Villa Dupouy
non molto tempo prima, ciò ci diede il coraggio che ci stava mancando per proseguire il cammino alla disperata ricerca di altri sopravvissuti. Provammo a quel punto a scendere a valle, sperando di sentire qualcosa o qualcuno. Intorno a noi era fortissimo l'odore di rifiuti bruciati, nonché uno strano odore chiaramente chimico a cui non sapevamo dare un nome. Il vento, ancora molto freddo, arrivava chiaramente da nord, ma questo poteva essere un indizio di tutte le voci che avevamo sentito il giorno prima. Per precauzione dotammo nostro figlio di uno straccio imbevuto d'acqua attorno alle vie respiratorie, sperando che questo avrebbe in qualche modo evitato la contaminazione da agenti chimici o radioattivi.
Improvvisamente sentimmo un rumore riecheggiare lontano. Era chiaramente il suono di un oggetto metallico sbattuto più e più volte su un barile o qualcosa di simile. Il cuore ci batteva fortissimo, senza pensarci due volte decidemmo di seguire quel rumore e dirigerci verso quella che pareva essere la salvezza. Dopo circa un paio d'ore di cammino, stanchi e assetati, cercammo di ristorarci in un luogo molto verde, con un più gradevole profumo di fiori e quel caratteristico odore della terra bagnata che tanto mi ricordava le scampagnate di quando ero bambino. Il luogo era però molto inquietante, un gelido vento scorreva attraverso le arrugginite stecche di ferro di un gabbiotto in stile liberty, creando suoni molto sinistri e poco rassicuranti. Alcuni pendagli metallici che stridevano contro la struttura non aiutavano a tranquillizzarci. Quelli
Villa Maurogordato
dovevano essere i resti di Villa Maurogordato, almeno credo. Il luogo era infatti irriconoscibile. Doveva essere stato il teatro di qualche scontro, non mi spiegavo altrimenti le condizioni in cui versava. Anche le colonnine tipiche erano come scarnificate, forse vittime della rabbia di chi aveva perso tutto o bersagli di qualche detrito impazzito arrivato da chissà dove, forse dal cielo. Quella vista ci inorridì, ma il nostro sconcerto venne presto meno al ripetersi del rumore che avevamo sentito prima. Un po' affranti ma comunque affrancati dall'idea che nei paraggi ci fosse ancora qualcuno, ci facemmo forza e cominciammo a camminare più svelti, nonostante il bimbo si fosse svegliato e chiedesse in continuazione dove stessimo
Villa Maurogordato
andando. Domanda la cui risposta era un rebus anche per noi. Probabilmente il suono arrivava da quella che fino a qualche giorno prima era l'Ardenza, ci aspettava qualche ora di cammino per raggiungerlo. Eravamo stanchi ed affaticati, il bimbo ancora troppo piccolo per camminare a lungo faceva a turno tra le nostre braccia e ciò non ci aiutava ad essere svelti col passo. Ma nonostante la fatica e la gran sete, giungemmo presso la Rotonda. Il rumore era sempre più forte e vivido e quando arrivammo di fronte alla famosa Baracchina d'Ardenza, o Chalet, i nostri cuori tornarono ad attristarsi. Quello che una volta era un luogo per far giocare i bambini ora si presentava come una logora costruzione che a stento si reggeva in piedi. E la presenza di alcuni corpi stesi sul prato ci terrorizzò. Era davvero finito tutto? Possibile che fossimo gli ultimi sopravvissuti? Dong, Dong, Dong! No! Di nuovo il rumore che ci aveva portato fin lì! Veniva dalla riva del mare, era evidente. Corremmo più veloci di quanto le nostre gambe fossero capaci e alla vista di un uomo, vivo e chiaramente felice di vederci, le nostre forze tornarono
Lo Chalet della Rotonda
praticamente tutte. Nedo, questo il suo nome, aveva recuperato i resti di una barca, purtroppo aveva a disposizione solo uno scafo che non era assolutamente sufficiente per la navigazione. La sua intenzione era quella di rimetterla in sesto ed usarla per arrivare sull'Isola d'Elba, era convinto che solo lì saremmo stati al sicuro. Nel mio piccolo pensai subito che quello fosse un  progetto troppo rischioso e privo di fondamenta, ma promisi comunque di aiutarlo nei suoi intenti, perché la sua convinzione era tale che farlo desistere mi pareva fargli uno sgarbo. Provammo innanzitutto a cercare qualcosa che assomigliasse ad un remo tra la grande quantità di rifiuti che se ne stavano lì sulla battigia. Probabilmente una grande nave era affondata e aveva versato grandi quantità di materiali vari in mare, non si spiegava altrimenti la presenza di tutti quei rifiuti. Cercammo in vano, erano in gran parte bottiglie, buste di plastica e agglomerati di mozziconi di sigaretta. Niente che potesse aiutarci, nonostante ciò Nedo raccolse
La spazzatura in riva al mare
delle bottiglie, le riempì d'aria chiudendole col tappo e le lanciò all'interno dello scafo. - Possono essere utili, potrebbero funzionare come strumento di soccorso in mezzo al mare, una sorta di bracciolo di fortuna - disse con aria di chi sapeva il fatto suo. Francesca a quel punto propose di avviarsi verso quello che era rimasto della città, lì avremmo sicuramente trovato qualche altro superstite. Apprezzando tutti l'idea ancorammo la barca improvvisata che Nedo ebbe cura di occultare per evitare che qualcuno se ne appropriasse e ci dirigemmo verso la città. Lo scenario era sconcertante, il lungomare era tutto una buca, l'asfalto rigonfio o completamente inesistente e man mano che ci avvicinavamo al centro ci accorgemmo sempre più dei danni che la tragedia aveva apportato. Decine di palme ricurve e logore stavano a stento in piedi, le strisce sulla strada erano pressoché illeggibili e le macchine ancora parcheggiate erano tutte piene di colpi o rigate. Non avevamo idea di cosa fosse successo.
Improvvisamente scorgemmo una figura umana che ci veniva incontro. Era una donna di una certa età, molto magra e particolarmente abbronzata. Corse verso di noi facendoci un sacco di feste. Nedo apprezzò particolarmente, nonostante fosse impegnato ad imboccare nostro figlio che mangiava beato l'unica scatoletta di tonno che era rimasta. La donna si chiamava Mirella ed era sopravvissuta riparandosi all'interno della Chiesa degli Olandesi. Si era recata lì perché quel luogo era famoso per la sua solidità, dopo che il Comune l'aveva completamente rimessa a nuovo. Le raccontammo del progetto di Nedo e ci disse che avrebbe potuto aiutarci, non prima di averci offerto acqua e viveri a volontà presso il suo rifugio improvvisato. La
La Chiesa degli Olandesi
Chiesa degli Olandesi era però irriconoscibile, il solaio era completamente crollato ed i vetri erano un lontano ricordo. Oltretutto il guano dei piccioni ricopriva gran parte del suo interno. Nonostante l'apparente degrado Mirella ci mostrò il suo giaciglio, costruito sotto due grandi e robuste travi e ben ripulito. Mangiammo del buon pane ammorbidito con l'acqua, della passata di pomodoro ed alcune scatolette di carne. Viste le condizioni era paragonabile ad una cena in un ristorante di lusso. Mirella ci raccontò quindi che i pescatori sfuggiti alla grande tragedia si erano rifugiati nella Fortezza Nuova e con loro avevano portato reti ed equipaggiamenti vari. Probabilmente avremmo trovato anche il necessario per mettere in opera il progetto di Nedo. Ci avviammo. Passare dal centro fu un'esperienza molto forte. La città era coperta di scritte, piena di cartacce ovunque, vetri rotti ed un odore sgradevole. Vederla in quelle condizioni mi fece piangere il cuore. E non solo.
In pochi minuti arrivammo alla Fortezza Nuova, quel luogo era il fiore all'occhiello della città, anni prima fu completamente sistemata ed era diventata il fulcro fieristico della costa toscana, nonché uno dei luoghi
La Fortezza Nuova
d'aggregazione dei giovani livornesi. Ma ora era tutto diverso. Non riuscivo a credere che in poco tempo si fosse trasformato tutto in quel modo. L'edificio era pericolante, le porte spaccate e marce, i muri già ricoperti di piante, quasi come se fossero passati vent'anni o più. Cercammo segnali di vita ma non ne trovammo, allora la nostra attenzione fu attirata da un cumulo di oggetti. Trovammo infatti dei remi, ma anche un piccolo motorino fuoribordo con un serbatoio quasi pieno. Era esattamente ciò che Nedo stava cercando. Nonostante ciò rimase con noi, la sera stava arrivando e non era sicuro avventurarsi da solo con quegli oggetti preziosi. Oltretutto l'odoraccio chimico stava aumentando ed in alcuni momenti ci costringeva a bere copiosamente per ripulire le vie aeree. Facemmo un bivacco, accendemmo un fuoco e passammo una notte relativamente tranquilla, visti dei sinistri rumori che si udivano di tanto in tanto. Ma la stanchezza vinse sul chi va la.

Al mattino l'odore era quasi scomparso, quasi si fosse depositato sul terreno e mentre sistemavamo la nostra roba per accompagnare Nedo alla barca, un bidone abbandonato attirò la nostra attenzione. Vi erano sopra alcune cartine della città sulle quali evidenziata a più cerchi vi era la Stazione San Marco, con l'eloquente
La Stazione San Marco
scritta "Salvezza". Probabilmente i pescatori avevano qualche informazione che a noi non era giunta. Fu così che tutti, Nedo e Mirella compresi, decidemmo di tentare la sorte avviandoci verso la stazione. La stazione San Marco era stata riqualificata qualche anno prima ed era un gioiello della città. Una linea storica era stata riaperta e frotte di turisti si mettevano in coda per salire su un antico treno a vapore.
Ma ciò che si presentò davanti ai nostri occhi dopo svariati minuti fu uno spettacolo inquietante.
La Porta che le dava il nome era in uno stato di completo degrado, piegata da non si sa quale forza e ricoperta di macchie scure. La stazione era completamente invasa da una strana erba spontanea, che fino a qualche giorno prima non esisteva e la ruggine ricopriva ogni parte metallica. Nonostante questo il
Porta San Marco
nostro respiro si distese quando davanti ai nostri occhi si parò un membro dell'esercito. Erano venuti a salvarci. Ci abbracciammo tutti, anche se il dolore per una città distrutta rimase dentro di noi per sempre."



Ovviamente questo racconto è solo un pretesto per farci rendere conto di quanto Livorno sia stata maltrattata negli anni. Le sue bellezze, le sue gemme, sono abbandonate, pericolanti ed in pessime condizioni. La lista di aree degradate e completamente abbandonate potrebbe allungarsi ancora, pensando per esempio a bellezze quali le Terme del Corallo, vergognosamente dimenticate dall'amministrazione.


Un ringraziamento a Giacomo Spagnoli per la foto della Chiesa degli Olandesi 
http://livornodailyphoto.blogspot.com/2013/01/stefano-matteo.html).

Commenti

  1. quella in foto non è Villa Dupouy...
    http://www.fondoambiente.it/Sos-FAI/Index.aspx?q=un-brano-di-storia-montenero-li-

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  2. Stai usando una mia foto dell'interno della Chiesa degli Olandesi senza citare né la fonte né l'autore: (http://livornodailyphoto.blogspot.com/2013/01/stefano-matteo.html).
    Saluti, Giacomo Spagnoli

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    1. Inserisco il tuo blog nella lista dei preferiti!

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    2. Non ti preoccupare! Usa pure le immagini del blog, basta che tu citi la fonte.

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    3. Caro Giulio, vedo che nel tuo racconto "fantasmagorico" che leggo solo adesso (domenica 15/9)hai citato anche la "nostra" chiesa degli Olandesi, dove ha trovato riparo una certa Mirella. Ma, dico io, dove può avere trovato Mirella un riparo in quel luogo, se non esistono ripari e tutto cade a pezzi, a quanto pare, finché i "pezzi" riusciranno a nascondere la vergogna di quanto finora non è stato fatto per il Tempio! Bravo, bisogna far sapere questa verità a tutti, anche ai responsabili addetti......

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  3. grazie, ora so dove andare a livorno per una serata/giornata diversa

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